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Una bella realtà del casentino: Poggiotondo

Ormai penso che sia una sorta di “virus”, nel mondo del vino conosco molti dirigenti d’azienda, notai, medici che, stufi dello stress lavorativo e della vita cittadina sono, per così dire, ritornati alle loro origini contadine e alle loro vere e reali passioni: la vigna ed il vino. Uno di questi è sicuramente Lorenzo Massart, un avvocato vignaiolo o, meglio, un vignaiolo con la passione del diritto che nel Casentino, nei pressi di Subbiano, con l’aiuto di sua moglie Cinzia Chiarion (medico con la passione dell’olivicoltura), ha dato nuovo sviluppo all’azienda agricola di famiglia, chiamata Poggiotondo, dove produce sia del buon vino sia dell’ottimo olio.
Nei quattro ettari vitati dell’azienda, gestiti sapientemente dall’agronomo Augusto Zarkis, ci sono solo vitigni autoctoni, sangiovese, trebbiano, canaiolo e malvasia bianca allevati tutti a cordone speronato per un progetto di filosofia qualitativa dove la vigna è il punto cardine e dove il vino deve risultare pura espressione di territorio, senza condizionamenti legati a mode passeggere o altro.
Con il prezioso aiuto dell’enologo Claudio Sala, Lorenzo Massart produce due vini rossi, il Poggiotondo, un IGT molto interessante a base di sangiovese e canaiolo che, nel pieno rispetto della tradizione casentinese, non conosce barrique e Le Rancole, un Chianti Docg prodotto solo nelle annate favorevoli.
Il Poggiotondo 2005, durante una degustazione tenuta con altri amici sommelier, si è rivelato un vino molto timido, ritroso, che sicuramente non ci ha concesso di apprezzare tutto il suo potenziale aromatico che, nel corso di tre ore di degustazione, non si è discostato molto da una timido accenno di ciliegia e frutta di rovo. In bocca migliora le sue prestazioni con un buon equilibrio anche se rimane sfuggente, soprattutto il corpo e la persistenza meriterebbero una marcia in più. Sicuramente una bottiglia “sfortunata” perché di questo vino me ne parlano molto bene.
Altra storia con il suo “fratello maggiore”, Le Rancole 2005, prodotto con uve Sangiovese all’80% e Canaiolo al 20%, la cui maturazione in legno e l’affinamento in bottiglia 12 mesi prima della commercializzazione contribuiscono a dar vita ad un vino di diverso spessore rispetto al precendente. Interessante il naso segnato da note di confettura di ciliegia, fragolina, lampone con eleganti contrappunti floreali di viola. Unica pecca? Forse c’è ancora della vaniglia da assorbire. L’ingresso in bocca è deciso e grintoso, si espande bene al palato, con buon carattere ed equilibrio, mettendo in mostra una frutta rossa matura ed arrivando ad un finale di bella persistenza e aromaticità.


P.S.: se passate per Poggiotondo dovete assolutamente vedere gli asini sardi di Lorenzo Massart

Poggiotondo val bene un Chianti!


Da appassionato di vino cerco sempre di seguire le vicende di tutte le aziende vinicole che mi stanno più a cuore per cui, a distanza di un anno, eccomi a parlarvi di nuovo di Poggiotondo, importante realtà del Casentinese, costituita da 54 ettari di pura natura, asini sardi compresi, tra i comuni di Subbiano ed Arezzo.
E’ il 1973 quando, su terreni galestrosi, Lorenzo Massart e sua moglie Cinzia Chiarion decidono di piantare, per un totale di 4 ettari, i primi tre vigneti aziendali: Vigna Grande, Vigna Quercia e Vigna Aldo.

Le Vigne
Da quel momenti in poi sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia bianca, tutti ricadenti della Docg Chianti, grazie anche al recente impianto del vigneto Tata (sangiovese) e di Vigna dei Meli ((sangiovese, canaiolo e malvasia), creeranno alchimie enologiche di forte impatto territoriale portando Poggiotondo ad essere un punto di riferimento per tutto il Casentino e non solo.

Poggiotondo e Le Rancole sono i due vini rossi di riferimento dell’azienda. 

Il primo, degustato nel millesimo 2007, è un sapiente blend di sangiovese e canaiolo che, nelle intenzioni di Massart e dei suoi collaboratori, rappresenta la tradizione e il carattere delle gente e dei prodotti della vallata. Maturato in vasche di cemento ed affinato in bottiglia per circa 12 mesi, è un vino che sia al naso che in bocca non tradisce la sua mission originaria perché sa essere rusticamente austero trasudando progressivamente col tempo passione e tradizione. La sua anima sapida e la freschezza di beva rappresentano i punti cardine di questo IGT affatto gridato che, proprio per questo, è un ottimo compagno di merenda, magari a base di prosciutto del Casentino.

Lorenzo Massart e sua moglie
Le Rancole, prodotto solo nella annate favorevoli, è il Chianti “vieilles vignes” dell’azienda provenendo da uve sangiovese e canaiolo dei tre vigneti storici dell’azienda. Matura per il 40% in barrique ed affina in bottiglia per un anno prima della commercializzazione. L’annata 2006 è la conferma che Le Rancole è un vino di grande saggezza, diretto, schietto, magnetico e scuro nelle suo profilo aromatico giocato su note di ciliegia scura, polposa come il Durone nero di Vignola, poi arriva la violetta appassita, la china, la lieve mineralità e un tocco di selvatico a ricordare i boschi di selvaggina del Casentino.
Bocca dinamica, fresca, sincera, dove colgo un grande equilibrio e nessuna traccia di legno. Chiude sapido di media persistenza. 


C 66 2007, il vino femmina di Poggiotondo


Quando l'ho bevuto la prima volta ho capito subito che Poggiotondo ha due anime, quella più tradizionale del Chianti e quella più "sbarazzina" e salottiera del C 66, un sangiovese con piccole tracce di merlot. Incuriosito dal "nuovo" progetto aziendale ho chiesto a Cinzia Chiarion di presentarmi il SUO vino. Le parole seguenti sono tutte in programma....

Volevo fare un vino per le signore perchè quelli di mio marito non lo sono. Allora per la vendemmia 2007 mi sono messa d'accordo con il cantiniere e KIM, il mio meraviglioso pastore tedesco che mi segue come un'ombra. Il cantiniere e KIM hanno accettato di fare un esperimento quasi di nascosto a mio marito. Abbiamo selezionato le uve migliori di sangiovese dalla Vigna Grande (è stata piantata nel 1973), ho comprato una botticellla di legno e via.


Via via l'ho assaggiato ed il cantiniere me lo teneva sott'occhio. Alla fine ho aggiunto il 10% di merlot 2007 e vai ... era nato il mio nettare, una donna per le donne! Una meraviglia!

A Lorenzo, mio marito, avevo detto dell'esperimento anche se pensava che ad un certo punto avrei delegato tutto a lui. Invece, quando ha capito che le cose erano diverse ci è rimasto un pò male visto che io, il cantiniere, KIM ed anche l'enologo (che nel frattempo avevo coinvolto) si era decisi ad andare avanti. A quel punto bisognava scegliere un nome e fare l'etichetta. Mentre ero in autostrada e stavo tornando a Firenze da Poggiotondo mi è
venuto il nome.....C 66. In fondo è il mio vino: C per Cinzia e 66 per 1966 il mio anno di nascita (sul 66 Lorenzo dice che sta per i miei anni che sarebbero 66!). Il nome mi piaceva perchè volevo qualcosa di nuovo non il solo nome del podere, del paese o della mamma.



In clinica (io lavoro in una clinica come medico internista) ho chiesto ai miei colleghi: "vi piace C 66?". Purtroppo la risposta è stata devastante ed evito di scriverla. 

Ora, l'etichetta: il bianco, il colore che preferisco, e il nero, che è la sua morte. Nessuno credo abbia mai fatto fondo nero con scritte bianche per un vino rosso (di solito è stato fatto fondo nero con scritte rosse). Anche se non fossi stata la prima a me piaceva così. Poi è venuta la ballerina perchè io da bambina volevo fare danza classica ed i miei genitiori, puntualmente, mi hanno iscritta ad un corso d'arpa. Poi una donnina sul retro come simbolo del riciclo (per dire che anche l'etichetta è tutta al femminile). E la capsula con la mia firma per concludere il mio capolavoro.


L'imbottigliamento l'ho fatto personalmente col cantiniere nel maggio 2009. Le prime bottiglie le ho fatte assaggiare alle mie amiche a Natale 2010. La prova è andata benissimo.
 
Per la guida di Maroni 2011, secondo il quale C 66 era il vino migliore, ho anche scritto una battuta su mio marito: visto che è il mio primo vino ed è venuto il migliore dell'azienda è bene che mio marito si ritiri a fare l'avvocato o a dipingere e faccia fare il vino a chi lo sa fare....

Il vino di Cinzia Chiarion, come scritto in precedenza, diverge dalla restante produzione aziendale per un maggiore facilità di approccio al bicchiere che si presenta con bei profumi di liquirizia, amarena, viola e un legno ancora un poco presente. A questi profumi più intriganti si associa un sorso abbastanza morbido, di media intensità, dove la sensazione di equilibrio è in via di definizione e la beva, soprattutto se il vino viene servito leggermente fresco, è facile e diretta, senza fronzoli. Prodotto in 666 esemplari, il C 66 fa due anni di botte grande. Brava Cinzia!

Poggiotondo - IGT Toscana "Poggiotondo" 2020


di Stefano Tesi

Ho fatto bene a rispettare la vocazione “tardiva” (è questa l’ultima annata in commercio) di questo rosso del Casentino a base di sangiovese e canaiolo, maturato in vasche di vetrocemento.


Bevuto col clima invernale e coi piatti giusti dà una sferzata di calore, piacevole veracità e di giusta pienezza.

InvecchiatIGP: Poggiotondo - Collefresco Vinsanto del Chianti DOC 2008


di Stefano Tesi

Da buon senese nutro sentimenti contrastanti verso uno dei prodotti più classici della Toscana, il vinsanto. La lunga frequentazione non aiuta, perché i ricordi familiari e non – sia quelli legati alle strette caratteristiche del vino, perché di vino si tratta, sia quelli legati alla sua utilizzazione, diciamo così, gastronomica – si accavallano. E devono fare i conti con mercati che cambiano, abitudini che mutano, stili che si evolvono.
 

Da un lato mi disturba la deriva un po’ cheap, diciamo pure liquorosa, che il consumo di vinsanto ha preso negli ultimi decenni, orientando così anche i consumatori verso l’orribile abitudine di inzuppare il cantuccio industriale in un prodotto zuccheroso da due soldi. Da un altro mi disturba il trend opposto, quello verso la sauternizzazione, che nel tentativo di conferire una “nobiltà consumabile” più ampia e ruffiana ha tolto assai spesso identità alla tradizione: quella secondo cui, più che da dessert, il vinsanto era una bevanda da aperitivo, da cortesia e da “conforto”, da cordiale quasi, che si beveva prima di uscire o si offriva a chi tornava. Un vinsanto pallido, piuttosto secco, elegante e in qualche modo delicato. Ognuno riconosceva al volo quello di casa propria. 

Nelle fattorie, del resto, la padrona di casa teneva le chiavi di tutto, tranne una: quella della vinsantaia, che invece restava fissa nelle tasche dei calzoni del padrone e guai a chi la toccava. Anche ciò faceva sì che il vinsanto fosse qualcosa di strettamente familiare, sempre ortodosso ma anche sempre diverso da tutti gli altri. La progressiva dolcificazione del vinsanto, fenomeno relativamente più recente, si è incrociata con la perdurante crisi dei vini dolci, con ciò che ne consegue. 


Ho fatto questa lunga premessa per dire che di vinsanti ne assaggio spesso, perfino li colleziono lasciandoli a invecchiare ulteriormente in cantina e mi diverto a fare confronti. Di rado però ne trovo qualcuno che mi rievochi, se non il gusto, almeno i piaceri e le sensazioni del passato. 

Nei giorni delle feste ne ho incrociato uno. 

Si chiama Collefresco, anno 2008. E’ un Vinsanto del Chianti doc e viene dal Casentino, zona di Subbiano. Lo produce l’avvocato Lorenzo Massart nella sua azienda di Poggiotondo, che avevo conosciuto parecchi anni fa e poi perduto di vista. 


Uva di Trebbiano e di Malvasia da vigneti sui 350 metri di quota, fatto in caratelli “di varie grandezze” dove resta cinque anni prima di andare in bottiglia, dice la scheda aziendale. 

Buono e confortante. 

Limpido ma non cristallino, di un colore ambrato scarico, appena velato, che non evoca certe tonalità caramellose oggi tanto diffuse e talvolta un po’ artificiose. E’ soprattutto al naso, però, che colpisce, con una trama granulosa, rarefatta e gentile di datteri schiacciati e di melata, con accenni di miele di acacia e di sulla. Nulla di troppo penetrante né di troppo intenso: è il bouquet che basta per sapere di antico. 


In bocca non è da meno. La piacevole granulosità olfattiva di traduce al palato in una dolcezza quasi cremosa, intensa ma misurata, niente affatto stucchevole, che produce un gusto lungo, lineare, composto. Perfino cangiante. 

Io l’ho gustato con dolci speziati come il panforte o i cavallucci e l’ho finito a piccoli sorsi, durante la successiva la conversazione. La sua pulizia non “incolla” infatti la lingua. Casomai, coi suoi 16°, la scioglie.  Peccato che ne abbiano fatte solo 620 bottiglie da 0,375 cl.